Appendice – Chi pensa astrattamente?

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Georg Wilhelm Friedrich Hegel – Traduzioni di Furia Valori, Università di Perugia – Il Pensare, Anno I, n. 1, 2012

“Pensare” “Astratto”? Sauve qui peut! Si salvi chi può! Così sento già gridare un traditore corrotto dal nemico che va vociando contro questo saggio per il fatto che vi si parlerà di metafisica. “Metafisica” infatti, come “astratto” e quasi anche come “pensare” è la parola di fronte alla quale ognuno, più o meno fugge via come davanti a un appestato.

Ma qui non si ha la cattiva intenzione di voler spiegare che cosa sia “pensare” o che cosa sia “astratto”. Nulla è così insopportabile al bel mondo come lo spiegare. Anche a me, quando qualcuno si mette a spiegare, mi dà fastidio alquanto, perché, all’occorrenza, capisco tutto da solo. Qui poi la spiegazione del “pensare” e dell’“astratto” si mostrerebbe senz’altro del tutto superflua proprio perché il bel mondo sa già che cosa è „astratto“ e ne rifugge. E come non si desidera quel che non si conosce, così non lo si può nemmeno odiare.

Inoltre non è mia intenzione voler conciliare di nascosto il bel mondo con il “pensare” o con l’“astratto”, quasi insinuandoli di contrabbando sotto l’apparenza di una conversazione alla buona, così da ridestarli di nascosto e senza alcuna ripugnanza e da esser entrato furtivamente ed essermi addirittura subdolamente insinuato nella società che, come dicono gli Svevi, sarebbe stata circuita; l’autore di questo intrigo avrebbe fatto conoscere questo ospite altrimenti forestiero, l’astratto, e l’intera società l’avrebbe quindi trattato, con altro titolo e riconosciuto come un buon amico. Tali scene di riconoscimento, per le quali il mondo verrebbe ad essere istruito contro sua voglia, hanno in sé l’imperdonabile difetto di far vergognare il loro orditore che voleva procurarsi a poco prezzo una piccola fama; sì che quella vergogna e quella piccola presunzione ne annullano l’effetto, ché anzi piuttosto spingono a rifiutare un insegnamento acquistato a tal prezzo.

Chi pensa astrattamente? Georg Wilhelm Friedrich Hegel 101 1 La presente traduzione è condotta sulla base dell’edizione critica curata da A. Bennholdt-Thomsenn, apparsa nelle “Hegel-Studien”, Bd. 5, Bonn 1969, pp. 161-164. ILp L’esecuzione di un tale piano sarebbe ad ogni modo già fallita, perché per la sua attuazione si esige che la parola chiave dell’enigma non venga detta in anticipo. Questo è invece quanto è già accaduto nel titolo. Se questo saggio avesse avuto una tale intenzione, non se ne sarebbero dovute presentare le parole chiave fin dall’inizio, bensì, come il ministro nella commedia, si sarebbe dovuto percorrere l’intera recita avvolti nella sopravveste e soltanto all’ultima scena sbottonarla e far risplendere la stella della sapienza. E poi lo sbottonarsi della sopravveste metafisica non presenterebbe questa volta così bene come quello della sopravveste ministeriale, perché quel che esso porterebbe alla luce sarebbe nulla più che un paio di parole; e il meglio della burla dovrebbe essere quello di mostrare che la società era da lungo tempo in possesso della cosa; alla fine essa avrebbe acquistato solo un nome, mentre la stella del ministro significa un qualcosa di ben più reale, un sacco di quattrini.

Che cosa è “pensare”, che cosa è “astratto”, e il fatto che ognuno lo sappia è già scontato nella buona società: ed in essa noi ci troviamo. Il solo problema è dunque chi sia che pensa astrattamente. L’intenzione non è, come già si è ricordato, di conciliare la società con queste cose, di pretendere da lei di dedicarsi a qualcosa di difficile, di insinuarle nella coscienza che essa trascura nella maniera più avventata ciò che per rango e condizione si addice ad un essere dotato di ragione. Piuttosto l’intenzione è di conciliare il bel mondo con se stesso; ché se in realtà esso non si fa altrimenti scrupolo di una tale trascuratezza, tuttavia davanti al pensare astratto ha, per lo meno interiormente, un certo rispetto, come davanti a un qualcosa di elevato; e se lo evita, non è perché gli sembri troppo misero, bensì troppo alto, non troppo comune, bensì troppo nobile; o, al contrario, perché gli sembra una éspèce, un qualcosa di particolare, un qualcosa per cui non ci si mette in mostra nella società, come per una nuova moda, bensì ce se ne esclude e ci si rende ridicoli come con un vestito povero, o anche con uno ricco, ma adorni di un gioiello incastonato all’antica, o con uno più ricco ancora ma da tempo diventato un ricamo da cineseria.

Chi pensa astrattamente? L’uomo incolto, non quello colto. La buona società perciò non pensa astrattamente, perché ciò è troppo facile, troppo basso (basso, non secondo l’esteriore condizione sociale); non per una vuota affettazione di tenersi lontani da ciò che non si può fare, ma proprio a causa dell’intrinseca miseria della cosa. Il pregiudizio e l’attenzione per il pensare astratto è così grande che i fiuti sottili annuseranno qui in precedenza una satira o un’ironia. Ma, da lettori della pagina del mattino, sanno che su una satira è posto un premio, e che io preferirei concorrervi e vincerlo piuttosto che presentare già qui senz’altro i miei argomenti. Per il mio asserto mi serve addurre soltanto esempi; e ognuno converrà che lo contengono. Dunque: un assassino è condotto al patibolo: per la gente comune è nulla più che un assassino. Forse delle signore osserveranno che è un uomo forte, bello, interessante. Quella gente trova quest’osservazione orribile: cosa? Un assassino bello? Come si può essere così mal Chi pensa astrattamente? Georg Wilhelm Friedrich Hegel 102 ILp pensanti e dire bello un assassino? Anche voi non siete proprio niente di meglio. E il sacerdote che conosce il fondo delle cose e dei cuori forse aggiunge: questa è la depravazione che domina tra le persone distinte! Un conoscitore di uomini ricerca il processo in cui si è svolta la formazione del delinquente, trova nella sua storia, nella sua cattiva educazione, una cattiva situazione familiare del padre e della madre, un’atroce severità per una qualunque lieve mancanza di questo uomo, che lo irritò contro l’ordine civile, una prima reazione contro quest’ordine che lo scacciò e gli rese possibile mantenersi ancora soltanto con il delitto. Può ben esserci della gente che, quando udrà tali cose, dirà: costui vuole scusare quell’assassino. Del resto ricordo, nella mia giovinezza, di aver udito un borgomastro lamentarsi che gli scrittori si spingono troppo in là e distruggono cristianesimo e onestà; uno aveva scritto addirittura una difesa del suicidio: un orrore, un vero orrore! Poi da un’ulteriore indagine, risultò che si trattava dei Dolori del giovane Werther.

Questo pensare astrattamente, nell’assassino non vedere niente altro che questo astratto, che è un assassino, e con questa semplice qualità cancellare in lui tutta la restante essenza umana. Ben diversamente si comportò il fine e sensibile mondo di Lipsia: cosparse e coronò di fiori la ruota ed il reo ad essa legato. Ma questa è di nuovo l’astrazione opposta. I cristiani possono ben intessere croci di rose o piuttosto rose di croci, avvolgere la croce con le rose. La croce è la forca e la ruota da gran tempo santificata. Essa ha perduto il suo significato univoco di essere lo strumento di una pena infamante, e dà al contrario la rappresentazione del più alto dolore e della più profonda umiliazione insieme con la più gioiosa estasi e divino onore. Ma la croce di Lipsia intrecciata di viole e rosolacci è una conciliazione alla Kotzebue, una sorta di confusionario accostamento di sentimentalità e malvagità.

Ben diversamente udii una volta una vecchia popolana dell’ospizio uccidere l’astrazione dell’assassino e vivamente rendergli onore. Il capo mozzo giaceva sul patibolo, c’era la luce del sole: “Eppure come è bello, disse; il sole benefico di Dio illumina la testa di Binder!”. A un ribaldo con il quale si è in collera si dice: tu non meriti che il sole ti illumini. Quella donna vide che il capo dell’assassino era illuminato dal sole, e che dunque ne era ancora meritevole. Ella lo solleva dal castigo del patibolo alla grazia raggiante di Dio: non realizza la conciliazione mediante le sue violette e la sua sentimentale vanità, bensì lo vede accolto nella grazia del più alto sole.

“Vecchia, le vostre uova sono marce” dice l’acquirente alla bottegaia. “Cosa, replica costei, le mie uova marce? Marcia sarà lei! Lei dirmi questo delle mie uova, lei? I pidocchi non hanno divorato suo padre in mezzo alla strada? E sua madre non è scappata con i francesi? E sua nonna non è morta all’ospizio? Ma si compri una camicia per la sua sciarpa di lustrini! Si sa, si sa da chi ha avuto questa sciarpa e questo cappello: se non ci fossero gli ufficiali, ora qualcuna non sarebbe così agghindata, e se le signore per bene vegliassero sulla loro casa qualcuna sarebbe in prigione. Almeno si rattoppi i buchi delle calze!”. In Chi pensa astrattamente? Georg Wilhelm Friedrich Hegel 103 breve, non le lascia più nulla di buono. Pensa astrattamente: la classifica per la sciarpa, il cappello, la camicia eccetera, per le dita e le altre parti del corpo, o ancora per il padre e l’intero parentado, e tutto per la colpa di aver trovato marce le uova; tutto in lei, senza eccezione, è dipinto a partire da queste uova marce, mentre quegli ufficiali di cui la bottegaia ha parlato – posto che c’entrino, ma c’è da dubitarne – avrebbero potuto vedere ben altre cose.

E per venire dalla domestica al servitore, nessun servitore sta peggio che presso un uomo di basso ceto sociale e di poca sostanza; tanto meglio invece sta quanto più aristocratico è il suo signore. L’uomo comune, di nuovo, pensa astrattamente: verso il servitore fa l’aristocratico e si comporta con lui solo come un servitore, e insiste perfino in questo unico modo di chiamarlo. Ottimamente il servitore si trova presso i francesi. L’uomo di elevata condizione è familiare con il servitore, il francese gli è perfino buon amico; quando sono soli, è addirittura il servitore che comanda: si veda Jacques le fataliste et son maiître di Diderot; il signore non fa altro che fiutare tabacco e guardare l’orologio; in tutto il resto lascia fare il servitore. L’aristoctatico sa che il servitore non è soltanto un servitore, bensì conosce anche le novità della città, le ragazze, ha in capo buone idee; egli lo interroga su ciò, e il servitore può dire quel che sa di ciò che il principale domanda. Presso un padrone francese il servitore non soltanto può far questo, ma anche porre temi sul tappeto, avere e sostenere la propria opinione, e quando il padrone vuole qualcosa non comanda, bensì deve anzitutto ragionare con il servitore della sua idea e dirgli una buona parola perché la sua opinione abbia il sopravvento.

Nell’esercito si presenta la medesima differenza; nell’esercito austriaco il soldato può essere bastonato, dunque è una canaglia; ciò che ha il diritto passivo di essere bastonato è infatti una canaglia. Così il soldato semplice vale per l’ufficiale come quell’astratto che è un soggetto bastonabile, col quale un signore che ha uniforme e “port d’èpée” è costretto ad avere che fare.

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